mercoledì 4 gennaio 2012

L'ultimo orango


Un miliardo di persone nel diciannovesimo secolo, oggi quasi sette miliardi. Sono i numeri che indicano l'eccezionale sviluppo demografico a cui l'uomo è andato incontro negli ultimi duecento anni. Un fenomeno che stiamo pagando a caro prezzo. Poche e lampanti cifre bastano a far comprendere la drammaticità del problema. Dai primi dell'Ottocento è scomparso il 40% delle foreste naturali; dal 1900 abbiamo perso il 50% delle zone umide, comprese le torbiere, fra i più importanti serbatoi di carbonio del pianeta; il tasso di estinzione animale si è rivelato mille volte più rapido di quello stimabile quando l'uomo non c'era. Nel periodo compreso fra il 2000 e il 2005, il Sudamerica ha subito la più ampia perdita di foreste – circa 4,3 milioni di ettari l’anno – seguita dall’Africa, con quattro milioni di ettari l’anno. Tra il 1985 e il 2007, quasi la metà della foresta di Sumatra – terza isola più grande dell'arcipelago indonesiano, dopo Nuova Guinea e Borneo - è stata spazzata via dalla furia umana. Dal Sessanta a oggi, a causa della rapida crescita della popolazione antropica, si è avuto un degrado complessivo di risorse preziosissime come acqua, legno, minerali, principi attivi utili per produrre farmaci. Ogni secondo un lembo di terra equiparabile a un campo da calcio viene depauperato e reso inaccessibile. Significa che 31 milioni di campi da calcio ogni anno subiscono il disboscamento per mano umana. E che, ogni 365 giorni, a causa di ciò, si perdono nel mondo circa 13 milioni di ettari di foreste. Fra gli habitat maggiormente colpiti dalla furia umana ci sono le foreste pluviali, macrocosmi caratterizzati da una biodiversità eccezionale, e veri e propri polmoni della Terra. Le precipitazioni annue molto abbondanti, l'elevato tasso di umidità e le alte temperature, consentono la sopravvivenza di oltre due terzi delle specie animali e vegetali presenti sul pianeta. In questa sede, grazie all'attività fotosintetica esplicata da colossi vegetali di cento metri di altezza, e secoli di età, ossigeno e anidride carbonica vengono continuamente riciclati, dando “respiro” al pianeta. Disboscando, quindi, si creano i presupposti per l'incremento del surriscaldamento globale: il 17% delle emissioni globali di gas serra proviene, infatti, dalla deforestazione, attuata per ricavare olio vegetale e soprattutto legname. «I danni agli ecosistemi forestali stanno provocando conseguenze in tutto il mondo a causa dei cambiamenti climatici, della scarsità di acqua e della perdita della diversità biologica», spiega Jan Heino, vicedirettore generale del Dipartimento Foreste della FAO. «Il sistematico cambio d’uso delle terre, trasformate da boschi in suolo agricolo, contribuisce per circa un terzo alle emissioni di gas serra». Il fenomeno non è uguale in tutti gli angoli del pianeta, ma è particolarmente sviluppato in aree fortemente compromesse dall'attività antropica come l'Indonesia. Qui, negli ultimi decenni, si è assistito a una vera e propria devastazione e usurpazione del territorio, con ripercussioni in ogni ambito, da quello umano, a quello faunistico e vegetale. Il disastro è incontrovertibile, considerato che il quinquennio 2005-2010 si è rivelato ben peggiore del quinquennio precedente. Non è solo un problema riferibile alla perdita “organica” del territorio. Si hanno, infatti, gravi ripercussioni anche sulla popolazione locale, vittima di carestie, malnutrizione, malattie infettive, e disagi dovuti ai repentini mutamenti del clima. Negli ultimi anni i cataclismi naturali sono cresciuti in modo esponenziale, le alluvioni, in special modo, hanno coinvolto milioni di persone, creando i presupposti per la diffusione di pestilenze e morbi. In questo angolo di mondo soffrono moltissimo gli animali, dove sono in pericolo di estinzione numerose specie. Fra i rappresentanti faunistici più in crisi ci sono gli orango tango, specie di scimmia endemica del continente asiatico. Presso l'isola di Sumatra, cuore nevralgico della realtà eco-sistemica di questo mammifero, appena 8.641 chilometri quadrati rimangono a sua disposizione, concentrati soprattutto nella calda provincia di Aceh, interessata da anni di conflitto fra i separatisti e i governativi di Jakarta.


Gli orango sono alti un metro e mezzo, i maschi pesano 110 chilogrammi, le femmine 50, campano fino a 40 anni (60 in cattività). Hanno il pelo rosso e un'intelligenza estremamente sviluppata: sono in grado di gestire abilmente strumenti dei quali si servono per costruire rudimentali, ma efficientissimi capanni per la notte e giacigli su cui sdraiarsi. Saltano da un albero all'altro con gran disinvoltura, sfruttando la peculiare anatomia degli arti, perfettamente calibrata per questo tipo di azione. Si nutrono soprattutto di frutta, ma non disdegnano insetti, miele e uova di uccelli. Abitano quel che resta delle foreste dell'Indonesia e della Malasya, ma i reperti fossili raccontano che un tempo erano distribuiti lungo un territorio ben più vasto, comprendente l'isola di Giava, la Cina e il Vietnam. Le due specie note sono il Pongo abelii (orango di Sumatra) e il Pongo pygmaeus (orango del Borneo). La deforestazione influisce direttamente sull'esistenza di questi animali, che si vedono privati del loro habitat naturale. Avanti di questo passo si prevede la loro estinzione entro i prossimi dieci anni. Un dato che non stupisce se si considera che, negli ultimi decenni, la popolazione di oranghi del sud-est asiatico è crollata del 92%. Sotto accusa le numerose attività che predispongono alla distruzione della foresta pluviale: costruzione di strade, estrazione di minerali, approvvigionamento illegale di legname e risorse del sottobosco. Qualcosa, però, si sta combinando per salvaguardare questi importantissimi scrigni naturali. The Great Apes Survival Partnership (GRASP) è il progetto ideato dai tecnici del United Nations Enviroment Program (UNEP) dieci anni fa, coinvolgendo governi, organizzazioni ambientaliste, donatori privati, con uno scopo preciso: proteggere le scimmie del pianeta, non solo gli oranghi, ma anche scimpanzé, gorilla e bonobo, che soffrono analoghe situazioni di minaccia. Un ultimo rapporto elaborato dal GRASP sulla situazione in Asia, verrà presentato ufficialmente nel giugno 2012, a Rio, in occasione dell'Earth Summit: non emergeranno belle notizie, ma l'appuntamento potrebbe offrire nuove concrete idee per superare o, almeno, arginare il problema. Di fatto, numerose leggi in favore di piante a animali, vengono periodicamente proposte e quasi sempre approvate, tuttavia non si scorgono segnali autentici di rivalorizzazione dei territori vergini. Il punto è che le leggi vengono aggirate con nonchalance, senza minimamente impensierire i responsabili dell'ecatombe delle foreste. Manovrano l'illecito politici corrotti e industriali senza scrupoli, che, alla fine, trovano sempre un escamotage per passarla liscia. Alla luce di ciò la condanna a 11 anni di detenzione per Azmun Jaafar, governatore del distretto di Pelalawan, reo di aver rilasciato permessi per la gestione dei terreni forestali, per molti è sembrata più una mossa sensazionalistica per mettere a tacere le anime ambientaliste più calde, che non un reale successo degli ecologisti. La facilità con cui la legge viene scavalcata rimanda alle politiche amministrative degli anni Settanta, quando il governo indonesiano dichiarò 140 milioni di ettari di terreno di proprietà dello stato. All'epoca si pensò che fosse un ottimo pretesto per tenere sotto controllo gli spazi naturali, preservandoli dal progresso e dalla antropizzazione. Ma poi, questa mossa, di dimostrò in tutto il suo reale e infruttuoso valore. Con i primi giri di bustarelle, anche gli amministratori più integerrimi cedettero, infatti, al fascino del soldo facile, cominciando a fare buon viso e cattivo gioco, approvando leggi e destra e a manca, e, dunque, favorendo le attività proibite di facoltosi imprenditori, del tutto disinteressati alle sorti del pianeta. Ancora oggi è con gli incendi che ci si fa strada fra il rigoglio delle foreste pluviali. Si appiccano ovunque liberando ettari ed ettari di foresta in pochi giorni. 


I dati raccolti dall’associazione Eyes on the forests rivelano che non tutte le industrie si muovono con la stessa intraprendenza. Alcune sembrano essere più furbe (e disoneste) di altre. Sui 4.782 incendi segnalati dal satellite nei primi sei mesi del 2009, il 25% ha interessato aree controllate da uno dei maggiori gruppi industriali della carta e dei biocarburanti: la APP/Sinar Mas. Secondo la FAO, fra il 1996 e il 2007, la sola APP ha distrutto 177mila ettari di foresta, quantità riconducibile al 65% di tutte le azioni di disboscamento registrate in Indonesia. «La APP, il gruppo Sinar Mas e le loro consociate devono assumersi la responsabilità legale di ciò che avviene nelle loro concessioni», afferma Susanto Kurniawan, rappresentante di Jikalahari. «Esse devono fermare immediatamente la distruzione delle foreste e delle torbiere, bloccare la costruzione di strade e canali di drenaggio della torba e combattere gli incendi». Per salvare la foresta pluviale s'è, infine, mossa anche la Norvegia che, in collaborazione col governo indonesiano, ha presentato un documento per impedire che nuove aree pluviali vengano convertite in zone agricole o sfruttabili per scopi industriali. Ma anche in questo caso il risultato tarda a venire. L'inglese Investigation Agency (EIA) e l'indonesiana Telepak hanno già segnalato gravi inadempienze da parte di alcuni industriali, sottolineando il caos legislativo che contraddistingue la terra degli oranghi e soprattutto la biasimevole cultura di impunità che porta ogni impresario a comportarsi come meglio crede. 

Areale dell'orango

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