lunedì 8 novembre 2010

VEGETARIANI (DIS)INCANTATI

Jonathan Safran Foer
Safran Foer, col suo ultimo libro, Se niente importa, ha avuto un forte impatto sull'opinione pubblica, tanto che - c'è da immaginare - un certo numero di nuovi vegetariani potrebbe essere figlia (diretta o indiretta) del contenuto del suo testo. La prova potrebbe essere quella fornita da vari blog americani che affrontano quesiti stuzzichevoli tipo: "Cosa cucino ai miei amici non più carnivori per colpa di Jonathan Safran Foer?". In effetti, è stato molto bravo ad affrontare il problema, suscitando un grosso interesse in chiunque, e spingendo gran parte dei lettori a domandarsi se vale davvero la pena continuare a nutrirsi con la carne, e se non sarebbe invece più utile dar retta a chi - come un tal Veronesi (tanto per stare dalle nostre parti, ma potremmo citare anche Jovanotti) - da anni ha deciso di mangiare solo prodotti vegetali. Cosa dice Foer nel suo libro? Per esempio che mangiare animali comporta grandi sofferenze per le bestie, allevate quasi sempre in condizioni pietose, chiuse in gabbie minuscole, private della corretta aereazione, ingrassate fino a provocare un cedimento dello scheletro; un aspetto in netta contraddizione col fatto che, moltissimi abitanti dei paesi sviluppati, posseggono un cane o un gatto, che accudiscono amorevolmente, sottolineando - ipocritamente, direbbe Foer - il loro amore incondizionato per gli animali: solo in USA si arriva a spendere 34 miliardi di dollari per sfamare, lavare e "viziare" il proprio animale domestico. Ma questo è niente. I veri problemi, infatti, riguardano l'uomo. Da un punto di vista nutrizionale l'alimentazione carnivora comporta un'assunzione smodata di principi attivi che, a lungo andare, danneggiano l'organismo (per esempio i residui ormonali impiegati negli allevamenti), creando i presupposti per lo sviluppo di malattie cardiache e tumorali. Un dato su tutti: i tre milioni di danesi che furono obbligati dall'embargo del 1917 a una dieta di orzo e patate (al posto della tradizionale basata sull'assunzione costante di carne, latte e burro), videro ridotto il tasso di mortalità di quasi il 35%. In generale le carni sono alimenti iperproteici che possono compromettere il metabolismo, impoverendo le ossa di calcio e acidificando le cellule. La carne proveniente dagli allevamenti industriali, inoltre, conterrebbe sostanze chimiche che avrebbero il potere di annullare l'azione degli antibiotici. E poi c'è l'effetto serra, che - seppur stocasticamente - incide pesantemente sulla qualità della vita di ognuno di noi. Per produrre carne si è costretti a sfruttare in modo intensivo il territorio, causando una iperproduzione di anidride carbonica. "Per via dei gas originati da letame, flatulenza e disboscamento per la creazione di pascoli e dell'energia impiegata per l'allevamento, il bestiame produce il 18% dei gas serra che intrappolano il calore nell'atmosfera", dicono gli esperti della Food and Agricolture Organisation (FAO). Inoltre è responsabile del 40% delle emissioni di metano, del 65% delle emissioni di protossido di azoto, gas che produce un surriscaldamento trecento volte più potente rispetto a quello causato dall'anidride carbonica. Foer è dunque lapidario: "La carne solleva rilevanti questioni filosofiche ed è un'industria da più di centoquaranta miliardi di dollari l'anno, che occupa quasi un terzo delle terre emerse del pianeta". Peraltro Foer non è l'unico ad aver scardinato il luogo comune secondo il quale, un vero Homo sapiens sapiens, non può fare a meno della carne, essendo da sempre un onnivoro, ed essendo da sempre la sua storia legata alla caccia e al sostentamento fornito dai prodotti animali. Con lui c'è anche il signor Michael Pollan - naturalista e giornalista statunitense - che, col suo Dilemma dell'onnivoro, ribadisce i concetti espressi dal collega: "Tra l’imperativo capitalista della massima efficienza a ogni costo e quello morale, che storicamente ha fatto da contrappeso alla cecità etica del mercato, è sempre esistita una certa tensione. Questo è un altro esempio delle contraddizioni culturali del capitalismo, un sistema in cui, col tempo, l’impulso economicista tende a erodere i pilastri morali della società. La pietà nei confronti degli animali da noi allevati è una delle ultime vittime". Ebbene, perché abbiamo voluto ricordare tutto questo? Perché ancora una volta - come sempre succede quando viene mandata a gambe all'aria una verità assoluta (tra un po’ salta pure la teoria della relatività di Einstein) - le carte in tavola cambiano; in questo caso specifico in favore di una nuova entusiasmante teoria, che potremmo tranquillamente considerare una via di mezzo fra la tesi di Foer e quella del carnivoro più acceso. Il riferimento è al caporedattore del magazine ambientalista The Ecologist - Simon Fairlie - che è uscito con una affermazione a dir poco provocatoria: "La carne fa bene al pianeta". Ma come? Non è mica vero il contrario? Dipende. 

Allevamento intensivo di maiali
Dipende da quanta carne si mangia e dalla qualità della carne che assumiamo. Dalle pagine del Time (riprese in questi giorni anche da Repubblica) Fairlie fa sapere: "Non ho toccato carne dai 18 ai 24 anni, poi ho cominciato ad allevare capre. Ma dei maschi non sapevo che farne: non producevano latte, non facevano figli. Così ho cominciato a mangiarli". La sua rivoluzionaria tesi può essere approfondita nel libro che ha da poco dato alle stampe, col titolo fin troppo eloquente: Meat: A Benign Extravagance. Una sorta di contro risposta ai sermoni officiati da Foer e Pollan (cui si potrebbero aggiungere anche quelli di Jeremy Rifkin, noto per aver scritto "Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne"). L'ecologista inglese dice che, per il bene del pianeta, non serve eliminare la carne, ma basterebbe mangiarne meno, un paio di volte la settimana. Se tutti si comportassero in questo modo - e non si arrivasse quindi a consumarne 36 chilogrammi all'anno cadauno - le cose quadrerebbero egregiamente. E addirittura, ne beneficerebbe anche l'ambiente. Come? Tenendo conto del fatto che l'agricoltura internazionale produce biomassa in sovrappiù che deve, in qualche modo, essere smaltita, e che senza problemi può finire negli abomasi dei bovidi: in questo modo si mette in moto un meccanismo controllato che consentirebbe, peraltro, ai terreni di pascolo di arricchirsi di concime naturale. Il caporedattore di The Ecologist è così convinto delle sue idee che ama definirsi "più ecologista di un vegano". E se qualcuno dovesse vedere in lui l'ennesima boutade di un fantasioso ambientalista, basterebbe redarguirlo con un servizio apparso sul prestigioso New Scientist, che in pratica perviene alle sue stesse conclusioni. Stando, infatti, ai dati raccolti dal giornale scientifico, senza allevamenti si avrebbe un deficit non indifferente per i tanti sottoprodotti di origine animale che contribuiscono alla nostra felice quotidianità. Per esempio si avrebbe una perdita di 11 milioni di tonnellate di cuoio e 2 milioni di tonnellate di lana. Peraltro senza il concime naturale offerto dagli animali, si avrebbe un utilizzo smodato di concimi chimici dannosi per l'ambiente. Alla luce di ciò, però, vanno fatte delle precisazioni. Fairlie in questo è categorico: non tutta la carne fa bene al pianeta. Fa bene solo quella derivante da allevamenti in linea con l'ambiente e con il rispetto degli animali. Va bene, per esempio, la carne di mucca, purché sia allevata nei prati. E va bene soprattutto quella di maiale. Parere condiviso anche da altri scienziati come Tara Garnett che dirige il Climate Research Network della University of Surrey a Guildford, in Gran Bretagna: "I maiali sono una vera pattumiera dell'uomo moderno. Noi diamo loro i nostri avanzi e loro ci restituiscono la carne. Un vantaggio che un mondo senza carne non avrebbe in alcun modo". Insomma, il dibattito è apertissimo, ma intanto, quel che è certo, è che il numero di vegetariani più o meno consapevoli è in costante aumento. Italia compresa. In Italia i vegetariani sono duplicati in pochi anni, passando dai 3 milioni del 2002 ai 6-7 milioni di oggi. Sono soprattutto le donne ad abbracciare la nuova filosofia alimentare; donne che abitano al nord, al centro, mediamente colte, con un buon titolo di studio. 600mila fanno parte dei vegani (detti anche vegetaliani) che evitano di nutrirsi con ogni tipo di alimento proveniente dal mondo animale, uova e latte compresi. (Ci sono anche i cosiddetti 'crudisti' che si nutrono solo di vegetali crudi, frutti o semi). Le statistiche dicono che il numero di vegetariani potrebbe incrementare ulteriormente, toccando i 30 milioni previsti nel 2050. Dati simili si riscontrano in tutti i paesi civilizzati. Secondo alcune statistiche condotte in USA alla domanda "sei vegetariano?", si è passati dall'1,2% di "sì" del 1977, al 6% del 2003, con punte del 10% in corrispondenza degli stati più progressisti. In generale è attendibile proferire che negli ultimi venti anni la crescita dei vegetariani è stata globalmente del 500%. Perché si diventa vegetariani? Per tanti motivi, compreso quello più banale di volere imitare la collega di lavoro "originale" o l'amico tornato "illuminato" da un viaggio in India. Di certo sono ben pochi i vegetariani "per forza", costretti in pratica a mangiare vegetali per motivi di salute. Di solito il discorso viene rapportato a una scelta filosofica-religiosa, tale per cui ogni forma di vita va onorata e rispettata. In parte molti sono diventati vegetariani anche in seguito al dilagare del morbo della mucca pazza: il timore di essere colpiti dall'encefalite spongiforme bovina (BSE) ha avuto il sopravvento anche su persone abituate a mangiar carne quasi tutti i giorni. Infine fra i vegetariani più convinti (di oggi e di ieri) vengono citati: Einstein, Platone, Rousseau, Voltaire, Byron, Wagner, Tolstoj, Paul Newman, Adriano Celentano, Franco Battiato, Bob Dylan, Michael Stipe. Ma sarà vero?

Michael Stipe, leader dei REM, vegetariano convinto

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